Reato (dir. pen.) 15 ottobre 1987 di Mazzi Giuseppe REATO I. - Reato in generale. a) DIRITTO PENALE.

Allegato

sezione I. - IL CONCETTO E LE SPECIE DEL REATO. 1. La definizione formale e la definizione sostanziale del reato. Gli indici formali di riconoscimento.

Reato è ogni fatto umano che l'ordinamento giuridico sanziona con pena (in senso stretto: altrimenti detta, pena criminale).

Questa definizione ha carattere formale, perché postula non la cognizione delle ragioni sostanziali che conducono il legislatore a configurare un determinato illecito come un "reato", ma la semplice constatazione che l'ordinamento giuridico italiano individua un "reato" attraverso la creazione di un sistema formalizzato di sanzioni (v. Diritto penale ). Per l'esattezza, un fatto costituisce reato ogniqualvolta la legge per esso prevede una sanzione precisamente denominata come pena di morte (leggi militari di guerra: articolo 27 comma 4 cost., 25 ss. e 48 ss. codice penalemil.g.), ergastolo, reclusione, multa, arresto ed ammenda (articolo 17 e 39 codice penale). Il legislatore ha scelto la strada della denominazione formale della pena e, quindi, del criterio formale di riconoscimento del reato, per evitare incertezze di sorta almeno nel fissare il primo indice della rilevanza penalistica di un fatto (l'esistenza di un "titolo" di reato) in ossequio al principio di espressa (o stretta) legalità.

Va peraltro subito precisato che il sistema formalizzato delle pene risulta più articolato, e quindi più complesso, alla luce delle disposizioni di coordinamento e transitorie per il codice penale (r.d. 28 maggio 1931, numero 601) e della legge di depenalizzazione. Attraverso le disposizioni di coordinamento e transitorie il legislatore del '30 fece fronte all'esigenza di coordinare il vecchio, meno preciso sistema delle pene, caratterizzato da una diversa denominazione delle stesse, con quello da lui introdotto con il nuovo codice penale. Attraverso la legge di depenalizzazione, il legislatore ha inteso spogliare della qualificazione di illiceità penale tutta una serie di fatti precedentemente previsti come reati, per ottenere una "deflazione" del corpo troppo pingue dell'illecito penale. Sicché, per determinare se si tratti o meno di reato, il valore attribuito dal codice penale ad una certa denominazione della sanzione data dalle singole norme penali deve essere oggi rapportato alle correzioni effettuate dalla legge di depenalizzazione. L'abbattimento subito dal campo del "rilevante penalistico" riguarda (ma con un nutrito àmbito di eccezioni) gli illeciti sanzionati esclusivamente con multa od ammenda, in quanto trasformati in illeciti amministrativi (articolo 32 ss. legge 24 novembre 1981, numero 689).

Soprattutto per tali motivi, nonostante gli indici formali di riconoscimento, predeterminati per legge, non possono escludersi problemi di interpretazione nel qualificare come titolo di reato un certo illecito. Nel risolverli, vista la spiccata sensibilità garantistica del legislatore in materia, va seguito il principio secondo cui, per poter qualificare come titolo di "reato" un determinato illecito, occorre una particolare sicurezza ermeneutica(1).

Nel senso che precede non arricchisce il quadro degli indici formali di riconoscimento del reato l'ampliamento della tipologia delle pene (criminali) introdotto con la previsione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (articolo 53 ss. legge n. 689, cit.): la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria (v. Sanzioni sostitutive ). Perché si tratta di pene non indicate in forma "edittale" nelle particolari fattispecie incriminatrici, non potendo quindi denotare la presenza di un titolo di reato. Esse sono lasciate alla discrezionalità del giudice penale che le può applicare in sostituzione di una pena detentiva commisurata in concreto entro il limite di sei mesi (semidetenzione), tre mesi (libertà controllata) od un mese (pena pecuniaria)(2).

Sorge questione se, per individuare esattamente il "reato", si debba aggiungere trattarsi di illecito da accertare tramite procedimento penale. In realtà il criterio del tipo di procedimento previsto per l'applicazione della sanzione si rivela necessario soltanto ove sorgano problemi interpretativi in ordine al corretto uso del termine usato dalla legge nel designare la sanzione comminata per il fatto illecito (o in ordine alla qualificazione delle ipotesi in cui il mero criterio nominalistico con riferimento alla sanzione non opera a seguito della legge di depenalizzazione) e sempre che la natura del procedimento da attivare possa dedursi da elementi esegetici diversi da quello appunto del tipo di pena comminata.

(1) Sul punto cfr. FIORELLA, Emissione di assegno a vuoto e responsabilità per colpa. Contributo alla determinazione del concetto di "previsione espressa" della responsabilità per colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1977, 997 ss. e specialmente 1002 ss.

(2) Per i casi previsti dall'articolo 81 codice penale v. però l'articolo 53 comma ult. legge n. 689, cit.

(1) Sul punto cfr. FIORELLA, Emissione di assegno a vuoto e responsabilità per colpa. Contributo alla determinazione del concetto di "previsione espressa" della responsabilità per colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1977, 997 ss. e specialmente 1002 ss.

(2) Per i casi previsti dall'articolo 81 codice penale v. però l'articolo 53 comma ult. legge n. 689, cit.

2. Definizione formale e positiva «ratio» sostanziale della previsione del reato. Lettera e «ratio» nella individuazione del reato.

Si è osservato come l'individuazione del reato in funzione di un certo nomen iuris della sanzione costituisca una prospettiva definitoria d'ordine formale. È come dire infatti che è reato ciò che la legge configura come tale.

Il problema se (su quali presupposti e in che misura) il reato vada definito oltre che dal punto di vista formale anche dal punto di vista sostanziale si specifica meglio svolgendo le seguenti articolazioni logiche.

a) Rimane d'ordine formale il problema interpretativo testé ricordato avente ad oggetto l'eventuale imprecisione legislativa nell'uso di un dato nomen della sanzione e/o nella scelta di un ulteriore criterio tipo quello oggi utilizzato dalla legge di depenalizzazione; per il quale, onde accertare se un fatto è reato (o meno), occorre non solo stabilire il nomen della sanzione e se esso è stato correttamente impiegato, ma occorre poi anche accertare quali fatti la legge di depenalizzazione voleva esattamente comprendere nell'indicare la materia esclusa dalla depenalizzazione. Peraltro come ogni problema interpretativo, anche questo potrà essere risolto con riguardo alle ragioni sostanziali che conducono la legge a configurare un reato in genere e determinati reati in particolare. In un certo senso anche qui allora sorge il problema d'una definizione sostanziale; ma non è questo il contenuto usuale che gli viene attribuito.

b) Si pone poi un problema di definizione formale del reato nella misura in cui, pur acclarato che la norma positiva abbia voluto qualificare un certo fatto come reato, l'interprete può/deve verificare la validità di tale previsione, ad esempio con riferimento ai corollari del principio di espressa (o stretta) legalità (è stata rispettata la riserva di legge? Vi è determinatezza di fattispecie? ecc.).

3. Costituzione e struttura sostanziale del reato (con riferimento al contenuto di disvalore). Premessa e rinvio.

Ciò non significa che già al fine di poter ammettere la positiva e valida previsione di un'ipotesi di reato non si ponga un problema di ordine sostanziale di grande rilievo.

La Costituzione pone limiti contenutistici alla previsione dell'illecito penale; e questo già in relazione ai beni penalmente tutelabili (v. infra, § 17) e comunque ai princìpi di necessità e proporzione nella individuazione delle esigenze di tutela e delle relative tecniche. Basti pensare all'articolo 27 comma 3 ove sancisce che le pene non solo debbono essere in sintonia con il senso di umanità, ma pure che esse «devono tendere» alla rieducazione del condannato (v. Pena: diritto penale )(3). Detta disposizione sembra sintetizzare sul punto lo spirito dell'intero sistema, legittimando il ricorso all'energia intimidativa della pena nei soli limiti dello stretto necessario, dirigendola per ogni altro verso alla ristrutturazione del comportamento del condannato secondo apprezzabili esigenze sociali (ovviamente nella misura delle effettive carenze del condannato e nel pieno rispetto delle libertà costituzionali). Ora, visto che l'azione intimidativa della pena va utilizzata nei soli limiti dello stretto necessario e che la pena rieducativa postula un soggetto "da rieducare"(4), anche nell'accertamento del reato deve consequenzialmente puntarsi l'attenzione su quei contenuti che fanno del comportamento e della volontà un comportamento ed una volontà realmente antisociali. Quindi già la funzione costituzionale della pena indica la necessità che il reato si componga di elementi significativi sotto il profilo dell'effettivo disvalore (sociale); e ciò evidentemente con riguardo a tutti gli elementi, nessuno escluso.

Prima piana conseguenza delle osservazioni appena sviluppate è la conclusione secondo cui nessuno degli elementi della fattispecie criminosa può rivelarsi "neutro quanto al valore" (wertneutral). Che in qualche disposizione possa rinvenirsi un elemento wertneutral può ammettersi almeno astrattamente. Una simile previsione, peraltro, ove pure vi fosse, postulerebbe una macroscopica illogicità della legge e perciò abbisognerebbe di una prova rigorosa. In ogni caso essa urterebbe contro il principio generale di giustizia sostanziale (o materiale, che dir si voglia) che pur non sempre esplicitato, e sia pur corretto dal principio antagonista di giustizia formale, esiste da sempre e tendenzialmente informa l'intero ordinamento giuridico. La norma giuridica non dovrebbe esser posta per mero capriccio; sicché almeno in linea di principio, salva prova contraria, deve ammettersi che essa seleziona i fatti e li regola sulla base di un plausibile fondamento di ordine contenutistico. E, quel che più rileva, deve ritenersi che oggi il principio di giustizia sostanziale abbia acquisito anche rango costituzionale, confinando nel territorio dell'illegittimo la disciplina normativa arbitraria. In particolare, per rimanere al diritto penale, se difettasse un ragionevole motivo per il sacrificio di beni fondamentali (tra cui, soprattutto la libertà individuale e la personalità sociale), quale deriva dall'applicazione della sanzione criminale, si profilerebbe in modo netto il contrasto con disposizioni basilari quali gli articolo 2, 3, 13, 25 e 27 cost.

Dal punto di vista dei princìpi (anche) costituzionali non basta comunque accertare che gli elementi della fattispecie di reato siano tutti rappresentativi di un contenuto effettivo di disvalore. Si pone con pari importanza un problema di carattere relativo con riferimento alla tecnica di tutela prescelta. La pena, invero, se deve essere umana e rieducativa (articolo 27 comma 3 cost.), deve tener conto dei diritti inviolabili dell'uomo (articolo 2 cost.), con specifico riguardo alla libertà personale (articolo 13 cost.), e deve costituire un ostacolo non arbitrario al libero sviluppo della persona umana (articolo 2 e 3 comma 2 cost.). Consequenzialmente, deve anche avere carattere sussidiario, intervenendo solo quando sia senz'altro indispensabile. Ecco dunque che per principio costituzionale la pena deve rappresentare, come è solito dirsi, l'extrema ratio dell'intervento legislativo; tecnica di tutela puramente residuale e che appare ragionevole solo allorché il contenuto complessivo di disvalore del fatto, alla luce di tutte le sue componenti, risulti sufficiente per giustificare l'impiego di una tale, così grave sanzione e non sia possibile ricorrere ad altra tecnica di tutela con risultati appaganti. Ove ciò non sia, la legge deve scegliere la forma di tutela alternativa. Tutto questo vale anche ad illustrare perché il panorama degli illeciti penali pecchi fondamentalmente di continuità, imponendosi il contrario principio di frammentarietà. È come se i reati costituissero tante isole nel mare dell'ordinamento giuridico, quali punti di emersione o meglio cuspidi rappresentative di momenti di disvalore particolarmente elevati. Il che trova un puntuale riflesso nel principio formale di "espressa" (o stretta) legalità (costituzionalizzato dall'articolo 25 comma 2) che, per così dire, ipostatizza l'andamento discontinuo del campo dell'illecito penale, sanzionando di converso l'esistenza di ampi spazi di "irrilevante penalistico".

Concludendo, quanto precede rende chiaro che la definizione formale del reato dovrà essere integrata attraverso una definizione sostanziale sotto il profilo delle ragioni di giustizia e di mera opportunità che inducono il legislatore a rivestire un certo fatto della qualificazione di reato (potendo ad esempio apparire irragionevolmente discriminatorio il trattamento di una certa ipotesi rispetto ad altra assolutamente non sanzionata o repressa con sanzione meno - o anche molto meno - grave). Ciò, almeno in quanto la Costituzione impone al legislatore ordinario di prevedere un reato solo in casi particolari (principio di frammentarietà), sempre che non sia sufficiente prevedere altro tipo di illecito (principio di sussidiarietà del diritto penale) e, perciò, solo a seguito di una valutazione che indichi un certo fatto come pegno di tanto significato di disvalore da ritenerlo meritevole non semplicemente di altre sanzioni, ma addirittura della pena (principio di meritevolezza della pena, corollario del principio di giustizia - o proporzionalità - dell'intervento punitivo) e bisognevole effettivamente di questa (principio della esigenza pratica della pena, corollario del principio di opportunità, moderazione ed economia dell'intervento punitivo)(5).

Riservandoci di approfondire altrove i predetti princìpi (v. infra, § 16 ss.), va intanto precisato come non siano qui finite le articolazioni logiche del problema della definizione formale e sostanziale del reato.

(3) Sulla funzione costituzionale della pena cfr., per tutti, con posizioni divergenti, BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss.D.I., XIX, 1973, 53 ss.; e SPASARI, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, 117 ss. In genere sulle teorie della pena cfr., più di recente, MONACO, Prospettive dell'idea dello 'scopo' nella teoria della pena, Napoli, 1984.

(4) Per una valorizzazione in senso analogo del significato dell'articolo 27 comma 3 cost. cfr. BRICOLA, op. cit., 53.

(5) Una precisa distinzione tra i due momenti dommatici della "meritevolezza di pena" e della "esigenza pratica della pena" (corrispondenti a quelli che la dottrina tedesca indica come Sfrafwürdigkeit e Strafbedürfnis) era presente anche nella più autorevole dottrina italiana di tempi non recenti: cfr. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale9, II, Firenze, 1902, ad esempio 112, là dove individua il «conflitto fra l'esigenza della rigorosa giustizia e le esigenze dell'ordine esterno»: «sarebbe giusto applicare la pena ordinaria; ma ciò recherebbe un disordine maggiore di quello che nascerà dall'omettere o moderare la punizione»; e poi: «La giustizia sarebbe ferita quando sotto il pretesto di pubblico bene si aumentasse, oltre il suo prescritto, la pena; perché in quella sta il limite del diritto di punire. Ma non si offende nel caso inverso; appunto perché essa non è che un limite; essa cioè interviene nel magistero penale onde impedire che si punisca dove essa lo vieta; ma non per imporre che si punisca sempre ove essa lo comanda, se al suo comando non risponde il bisogno della tutela giuridica, o l'obbedirvi espone a pericoli maggiori il diritto che si vuol proteggere» (p. 113 s.).

(3) Sulla funzione costituzionale della pena cfr., per tutti, con posizioni divergenti, BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss.D.I., XIX, 1973, 53 ss.; e SPASARI, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, 117 ss. In genere sulle teorie della pena cfr., più di recente, MONACO, Prospettive dell'idea dello 'scopo' nella teoria della pena, Napoli, 1984.

(4) Per una valorizzazione in senso analogo del significato dell'articolo 27 comma 3 cost. cfr. BRICOLA, op. cit., 53.

(5) Una precisa distinzione tra i due momenti dommatici della "meritevolezza di pena" e della "esigenza pratica della pena" (corrispondenti a quelli che la dottrina tedesca indica come Sfrafwürdigkeit e Strafbedürfnis) era presente anche nella più autorevole dottrina italiana di tempi non recenti: cfr. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale9, II, Firenze, 1902, ad esempio 112, là dove individua il «conflitto fra l'esigenza della rigorosa giustizia e le esigenze dell'ordine esterno»: «sarebbe giusto applicare la pena ordinaria; ma ciò recherebbe un disordine maggiore di quello che nascerà dall'omettere o moderare la punizione»; e poi: «La giustizia sarebbe ferita quando sotto il pretesto di pubblico bene si aumentasse, oltre il suo prescritto, la pena; perché in quella sta il limite del diritto di punire. Ma non si offende nel caso inverso; appunto perché essa non è che un limite; essa cioè interviene nel magistero penale onde impedire che si punisca dove essa lo vieta; ma non per imporre che si punisca sempre ove essa lo comanda, se al suo comando non risponde il bisogno della tutela giuridica, o l'obbedirvi espone a pericoli maggiori il diritto che si vuol proteggere» (p. 113 s.).

4. Il problema delle fonti extragiuridiche di definizione del reato.

Si tratta, così, di stabilire se sia possibile richiamare ragioni sostanziali "extragiuridiche" che si sostituiscano o si aggiungano alla ratio legis onde definire il precetto giuridico e quindi integrare o modificare la nozione legale del reato, integrando o modificando il campo delle incriminazioni speciali. Partendo da una corretta e sia pur calibrata visione informata a positivismo giuridico è evidente che dal principio di espressa legalità consegue pianamente che, solo in quanto recepite dalla legge, le ragioni sostanziali possono essere prese in considerazione dall'interprete ai fini applicativi: ciò trasforma in legale ciò che sotto altri profili non lo è. Così concependo, non vi è contrapposizione tra realtà e diritto, semmai rapporto dialettico, nel senso che la realtà viene orientata in funzione del diritto (ed in tal senso il diritto diviene fatto tra i fatti); mentre quest'ultimo si può comprendere veramente solo ispirandosi ad affinata sensibilità per la realtà socio-politica da cui è scaturita e per quella realtà in cui è chiamata a vivere in conformità della ratio immanente al diritto medesimo. Anche la recezione legale ha comunque un limite. Ogni ordinamento che, come quello italiano, parta dal principio costituzionale di espressa legalità (che contiene il naturale corollario della definizione giuridica mediante lex scripta) consente che la legge ordinaria possa rinviare a fonti definitorie extragiuridiche a fini di incriminazione (contra reum), solo in circoscritti ben precisi limiti. Vale a dire: nella sola misura in cui tale rinvio non escluda una "sufficiente determinabilità" dei concetti usati dalle singole disposizioni incriminatrici (principio di determinatezza della norma e della fattispecie penale: v. infra, § 7).

La storia recente ha mostrato come possano determinarsi profonde rotture dell'idea della definizione mediante legge, con riflessi anche restrittivi della libertà personale. Così, collegabile ad una vera e propria degenerazione di segno autoritario, il diritto penale della Germania nazionalsocialista, in spregio per il principio di legalità, mediante la trasformazione del § 2 del codice penale che lo conteneva (anno 1935), consentì che il reato potesse definirsi, anche con valenza di incriminazione, con riferimento non solo all'espressa previsione di legge, ma anche alla meritevolezza di pena "secondo la concezione di fondo di una legge penale", e, ancor peggio, secondo il "sano sentimento del popolo" (gesundes Volksempfinden). Qui la legalità diveniva solo apparente; mentre attraverso considerazioni incontrollabili permesse dal riferimento ad una simile clausola potevano irrompere le più inimmaginabili ed inique considerazioni, trasformandosi il diritto penale in mero strumento di una certa ideologia politica di parte.

Ben diversamente si pone il problema quando si tratti del ricorso interpretativo a clausole generali tipo quella dell'azione socialmente adeguata(6). Perché va valutato che l'operatività di clausole di questo tipo possiede una valenza favorevole per il destinatario della norma penale. È vero infatti che l'utilizzazione di simili clausole costituisce sempre un problema a fronte del principio di legalità, comunque determinando un considerevole etero-assestamento dei confini del rilevante penalistico. Tuttavia gli ostacoli sono minori sotto il profilo della ratio di garanzia che informa il principio medesimo, avendo esso soprattutto il significato di mettere il destinatario della norma penale al riparo da indebite incriminazioni; non escludendo, dunque, in linea di principio, un affievolimento del rigore formale ove questo ridondi a vantaggio del destinatario medesimo. L'utilizzazione perciò delle clausole suddette potrebbe rivelarsi lecita, ove, assumendo una funzione euristica, costituisse un supporto nella ricerca delle ragioni che di volta in volta possono presiedere alla individuazione dei limiti materiali e psicologici dell'illecito penale; rinvenendo soprattutto nell'analogia in bonam partem (v. infra, § 7) una naturale zona di influenza.

(6) Sul tema cfr., per tutti, FIORE, L'azione socialmente adeguata nel diritto penale, Napoli, 1966, specialmente, per i problemi di certezza del diritto, 239 ss.

(6) Sul tema cfr., per tutti, FIORE, L'azione socialmente adeguata nel diritto penale, Napoli, 1966, specialmente, per i problemi di certezza del diritto, 239 ss.

5. Le aspettative «de iure condendo». Il problema delle costanti anche storiche della previsione del reato.

Molto spesso, quando si parla di una concezione sostanziale del reato, in realtà non si fa altro che esprimere, consapevolmente o meno, semplici aspettative, magari del tutto personali, riguardo alla più giusta ed opportuna configurazione dell'illecito penale, obiettivamente atteggiando la propria analisi, in definitiva, in una prospettiva de iure condendo. Sul punto, peraltro, non possiamo che limitarci a dichiarare l'estraneità del tema ai contenuti della presente trattazione (v. invece Politica criminale ).

Spesso collegato a quello precedente, ma pur sempre diverso, è il senso che assume il problema quando si parla di definizione sostanziale del reato, riferendosi ad un quesito che non è più di diritto italiano (attualmente) vigente, ed è magari senz'altro relativo alla determinazione delle ragioni sostanziali che hanno indotto il legislatore (italiano o meno), nei diversi tempi, a prevedere un fatto come reato. Su tale problema, che è evidentemente di ordine storico, il cultore del diritto penale come quello di altre scienze ausiliarie non ha potuto né può naturalmente esimersi dall'interrogarsi.

Nel corso dei tempi si è tentato sotto diverse forme ed in diversa misura di stabilire una correlazione più o meno stretta tra diritto penale e morale(7), immaginando come motivo politico di penalizzazione la contrarietà del fatto all'ordine morale, sia pur colto nei suoi momenti particolarmente significativi. Non manca neppure chi, come il Grispigni, pur sensibile interprete di una visione sociologica, non svincola il diritto penale dall'etica, opinando che la sola circostanza che il diritto penalizzi un certo fatto significhi la sua appartenenza alla sfera dell'immorale(8). Anche questa posizione sembra peraltro criticabile, perché finisce con il negare la possibilità che risulti punito il fatto moralmente neutro ed a maggior ragione la possibile contrapposizione tra diritto e morale, escludendo che il primo possa essere criticato proprio in ragione della sua immoralità (eventuale).

Nella ricerca delle ragioni sociologiche di penalizzazione(9), interessante prospettiva metodologica è quella dell'analisi della società come "sistema di interazioni" che pone decisamente l'accento sulla necessità di indagare quali siano le condizioni di "funzionamento" del sistema sociale di volta in volta maturate(10). Il problema appare in tal modo più correttamente impostato, emergendo chiaramente come non si tratti di problema di individuazione di un fattore universale, ma di un'analisi multifattoriale alla luce di una metodologia che prende in considerazione le regole della struttura sociale e quindi le interazioni esercitate tra le diverse componenti della struttura; mentre risulta al contempo chiaro che il funzionamento del sistema non dipende da questo o quel fattore, ma da una particolare combinazione di tutti i fattori interagenti. Sicché anche lo studio della norma penale va effettuato con riguardo alla funzione sociale da essa obiettivamente esercitata, facendo attenzione alle regole di assestamento e di evoluzione di un certo sistema sociale. I vantaggi che la ricerca può conseguire concependo la società come sistema di interazioni sono innumerevoli. Così, è stato tra l'altro messo in rilievo come dall'esame delle Funktionsbedingungen dell'ordinamento sociale potrebbero enuclearsi i princìpi di valutazione che presiedono all'individuazione dei beni giuridici(11).

Quale che sia il metodo utilizzato, peraltro, non si può non rilevare quanto diversi e mutevoli nel tempo e nello spazio siano i fattori della qualificazione giuridico-penale. Ed il presente scritto non è il possibile luogo d'un esame sia pur sommario della vastissima problematica. Certo si è che una concezione sussidiaria del diritto penale può dirsi operante solo se il reato presupponga un'offesa «ai più fondamentali interessi di una società in un determinato momento storico»(12).

Su un piano di conclusioni molto diverso si colloca chi collega la previsione del reato alle caratteristiche proprie delle conseguenze giuridico-penali(13). La soluzione del problema non starebbe tanto o (meglio) solo nell'individuare i particolari fattori sociali che conducono a stimare un fatto più o meno grave tanto da farlo apparire bisognevole di pena; quanto nel cogliere che in determinati casi soltanto la pena (in senso stretto) è strumento giuridico adatto alla regolamentazione di una determinata materia.

L'orientamento non si può condividere almeno nella misura in cui sembra disgiungere l'applicabilità della pena in senso stretto dalla valutazione della gravità del fatto cui collegarla (meritevolezza di pena); facendone un problema, almeno in certi casi, di sola efficienza sanzionatoria (esigenza pratica della pena).

Comunque sia, risultati chiarificatori anche su questo punto si possono sicuramente conseguire ove si sviluppi la definizione sostanziale del reato con riferimento alla ricordata, ben diversa e positiva problematica dei princìpi posti dalla legge ordinaria e costituzionale ai fini della valutazione della meritevolezza di pena e, ancor più, con riferimento ad una analisi della "struttura" dell'illecito penale che tenga conto delle componenti del suo contenuto complessivo di disvalore. È questa la prospettiva di definizione sostanziale che sembra meritevole di approfondita analisi (v. infra, § 14 ss.).

(7) Su recenti aspetti della cultura giuridica tedesca in tema di rapporti tra diritto penale e morale, cfr. MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale, Napoli, 1984, 88 e 102 ss.

(8) Cfr. GRISPIGNI, Diritto penale italiano, I, rist., Milano, 1950, 148.

(9) Nello studio dei meccanismi sociali di criminalizzazione in una prospettiva di politica criminale si segnala HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens, Frankfurt am Main, 1973.

(10) Cfr. AMELUNG, Rechtsgüterschutz und Schutz der Gesellschaft, Frankfurt am Main, 1972.

(11) Cfr. AMELUNG, op. cit., 394.

(12) In tale offesa rinviene l'ubi consistam sociologico del reato il GRISPIGNI, op. cit., II, 11; (nello stesso senso) I, 283 s.

(13) Cfr. FROSALI, Sistema penale italiano, Torino, 1958, I, 339 s.; III, 193 ss.

(7) Su recenti aspetti della cultura giuridica tedesca in tema di rapporti tra diritto penale e morale, cfr. MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale, Napoli, 1984, 88 e 102 ss.

(8) Cfr. GRISPIGNI, Diritto penale italiano, I, rist., Milano, 1950, 148.

(9) Nello studio dei meccanismi sociali di criminalizzazione in una prospettiva di politica criminale si segnala HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens, Frankfurt am Main, 1973.

(10) Cfr. AMELUNG, Rechtsgüterschutz und Schutz der Gesellschaft, Frankfurt am Main, 1972.

(11) Cfr. AMELUNG, op. cit., 394.

(12) In tale offesa rinviene l'ubi consistam sociologico del reato il GRISPIGNI, op. cit., II, 11; (nello stesso senso) I, 283 s.

(13) Cfr. FROSALI, Sistema penale italiano, Torino, 1958, I, 339 s.; III, 193 ss.

6. Le specie del reato: il delitto e la contravvenzione.

La legge ha scelto un criterio formale di riconoscimento imperniato sulla tipologia delle pene anche per individuare le diverse specie del reato: il delitto e la contravvenzione. Se si tratta di (pena di morte) ergastolo, reclusione e multa il reato costituirà, più precisamente, un delitto; se si tratta di arresto ed ammenda costituirà invece una contravvenzione (articolo 17 e 39 codice penale). Anche in ordine alla distinzione in oggetto, peraltro, non sono mancati problemi interpretativi sempre per le ragioni già riferite nascenti dalle esigenze di coordinamento del sistema attuale con il sistema precedente al codice penale del '30. Neppure è mancato in passato che in un caso particolare si ritenesse che il termine (multa) deputato dal codice per contrassegnare la sanzione tipica di una certa specie di reato (il delitto) fosse stato impropriamente utilizzato per indicare un reato di specie diversa (la contravvenzione)(14). Quale corollario del principio di chiarezza della norma incriminatrice e della fattispecie (v. infra, § 6) in casi dubbi dovrebbe propendersi per la soluzione più favorevole al destinatario della norma penale e quindi di regola (ma non sempre) per la natura contravvenzionale del fatto. Per poter affermare peraltro il configurarsi di un dubbio effettivo non dovrebbe ignorarsi la presunzione di correttezza nell'uso legislativo del linguaggio tecnico-giuridico: sicché solo in presenza di argomenti assai rilevanti potrebbe sorgere un vero dubbio circa la proprietà dell'uso fatto in casi particolari dei termini che gli articolo 17 e 39 codice penale formalizzano come denotanti una certa specie di reato.

Come per la previsione del genus "reato", anche in ordine alla distinzione tra le species "delitto" e "contravvenzione" la dottrina si è sforzata inutilmente di rinvenire un fattore sostanziale decisivo che illustrasse il 'perché' la legge propenda di volta in volta per l'una o per l'altra configurazione (v. Delitto: diritto penale ; Contravvenzione ). Quel che può dirsi, almeno in linea di principio, è che la legge dovrebbe configurare come delitti i fatti più gravi e come contravvenzioni quelli meno gravi che varchino tuttavia la soglia della meritevolezza e della necessità pratica della pena(15).

La distinzione tra delitti e contravvenzioni rileva sotto numerosi profili (elemento psicologico, tentativo, cause estintive del reato e della pena, misure di sicurezza, ecc.).

(14) Ciò in rapporto all'omesso versamento dei contributi "INA-Casa" oggi non più reato, ma allora previsto come tale dagli articolo 5, 7 e 26 legge 28 febbraio 1949, numero 43: cfr. cassazione, sezione III, 21 febbraio 1961, in Giur. it., 1962, II, 357 (con nota di CONTI, Ontologia e interpretazione); cassazione, sezione III, 1° agosto 1956, in Riv. it. dir. pen., 1957, 68 (con nota di PEDRAZZI, Ontologia fuori luogo); contra, ad esempio, cassazione, sezione III, 10 maggio 1961, in Giust. pen., 1962, II, 137, m. 100; cassazione, sezione III, 14 aprile 1961, ivi, 1961, II, 960, m. 1069.

(15) Per la relatività di questo criterio si esprime anche la circolare Presidenza del Consiglio dei ministri 5 febbraio 1986, numero 1.1.2/17611/4.6 (in gazzetta ufficiale 18 marzo 1986, numero 64) sui «Criteri orientativi per la scelta tra delitti e contravvenzioni e per la formulazione delle fattispecie penali» pubblicata anche in cassazione pen. mass., 1986, 626.

(14) Ciò in rapporto all'omesso versamento dei contributi "INA-Casa" oggi non più reato, ma allora previsto come tale dagli articolo 5, 7 e 26 legge 28 febbraio 1949, numero 43: cfr. cassazione, sezione III, 21 febbraio 1961, in Giur. it., 1962, II, 357 (con nota di CONTI, Ontologia e interpretazione); cassazione, sezione III, 1° agosto 1956, in Riv. it. dir. pen., 1957, 68 (con nota di PEDRAZZI, Ontologia fuori luogo); contra, ad esempio, cassazione, sezione III, 10 maggio 1961, in Giust. pen., 1962, II, 137, m. 100; cassazione, sezione III, 14 aprile 1961, ivi, 1961, II, 960, m. 1069.

(15) Per la relatività di questo criterio si esprime anche la circolare Presidenza del Consiglio dei ministri 5 febbraio 1986, numero 1.1.2/17611/4.6 (in gazzetta ufficiale 18 marzo 1986, numero 64) sui «Criteri orientativi per la scelta tra delitti e contravvenzioni e per la formulazione delle fattispecie penali» pubblicata anche in cassazione pen. mass., 1986, 626.

sezione II. - LA FORMA E LA STRUTTURA DEL REATO. 7. La forma del reato. Il principio di "espressa" legalità.

Il reato è un illecito previsto dalla legge in forma determinata, tassativa e chiara.

Tale "forma" del reato è imposta non solo dalla legge ordinaria (articolo 1 codice penale e 14 disp. prel.), ma dalla stessa Costituzione (articolo 25 comma 2), nel sancire il principio di "espressa" (o stretta) legalità (v. Legge penale ; «Nullum crimen, nulla poena sine lege» ; Tipicità: diritto penale ).

a) Più esattamente, il reato è di creazione legislativa, nel senso che deve esser previsto da una legge formale o materiale (atto avente "forza di legge") (riserva di legge). Fonti giuridiche di rango inferiore possono definire la figura del reato solo in suoi settori periferici (assolutezza della riserva di legge).

b) il reato deve essere previsto dalla legge in forma (sufficientemente) determinata. Sancendo il principio di stretta legalità il legislatore certamente non disconosce che l'elasticità, sia pur contenuta, della previsione normativa non può essere eliminata. Ne discenderebbero altrimenti complicazioni talora insuperabili nella redazione del testo normativo o, comunque, il pericolo di aprire la strada a lacune di tutela devastanti. Una corretta interpretazione del principio di stretta legalità però impone che il legislatore, abbandonando resistenze d'ogni genere o semplici pigrizie, determini tutto quanto può essere determinato alla luce delle buone regole di tecnica della legislazione. Problemi consistenti in materia di determinatezza si pongono sia per la normativa codicistica (si pensi soprattutto alla definizione latissima dell'illecito commissivo mediante omissione: articolo 40 comma 2 codice penale), sia per la legislazione speciale (tra i settori più colpiti da una deficitaria definizione legislativa dell'illecito va sicuramente annoverato quello della legislazione penale economica).

c) Il reato deve essere previsto dalla legge in forma tassativa; il che significa che il giudice non può "correggere" la figura di reato predeterminata per legge sì da farvi rientrare fatti "analoghi" a quelli penalmente sanzionati (divieto dell'estensione analogica in malam partem). Secondo l'opinione dominante è invece lecita l'estensione analogica della norma penale a favore del suo destinatario (analogia in bonam partem) (v. Analogia ), sempre che, naturalmente, non si tratti di norma eccezionale (articolo 14 disp. prel.).

La liceità dell'analogia in bonam partem sembra in effetti da ammettere. Rimane invero fermo il principio illuministico-liberale che sta alle origini dell'espressa legalità dell'illecito penale e che sancisce la prevalenza del diritto di libertà dell'imputato sulla potestà punitiva dello Stato. Non si vuole con ciò negare che l'analogia anche in bonam partem possa essere strumentalizzata per prevaricare, assolvendo il colpevole. Dinanzi a questa possibile strumentalizzazione il diritto di matrice illuministica e liberale preferisce il vantaggio di poter assolvere, questa volta secondo giustizia (ratio della norma, interpretazione teleologica e criteri similari), chi, alla luce di un applicazione non analogica delle norme a favore del destinatario, dovrebbe condannarsi. Visto allora lo spirito di favor che lo informa, il principio di legalità non si oppone ad un'analogia in bonam partem.

Che ciò corrisponda al diritto positivo potrebbe trovare un'eloquente dimostrazione studiando il rapporto intercorrente tra l'articolo 14 disp. prel. e gli articolo 25 comma 2 cost. e 1 codice penale Perché, se è vero che l'articolo 14 disp. prel. parla genericamente di «leggi penali» (non estensibili analogicamente), lasciando dubitare della possibilità di escludere dal novero le disposizioni in bonam partem, l'articolo 25 cost. e l'articolo 1 codice penale sono chiari nel riferire testualmente il principio di stretta legalità e quindi il divieto di analogia alla "punizione" cioè al momento afflittivo, e non a quello assolutorio. Sia l'articolo 25 cost. che l'articolo 1 codice penale infatti dicono nessuno può essere «punito» se non in forza di una precisa disposizione di legge (che la legge ben possa scegliere di limitare il divieto di analogia al momento sanzionatorio è oggi dimostrato, sia pur in un campo diverso, dal principio di legalità in materia di illecito amministrativo ai sensi della legge n. 689 del 1981, articolo 1 comma 2, ove risulta testualmente chiaro che il divieto di applicazione della norma in via di analogia - «oltre i casi ed i tempi considerati» - si riferisce alle sole leggi che prevedono "sanzioni" amministrative).

Naturalmente non si vuol certo misconoscere l'estrema pericolosità che ogni rottura della legalità, sia pur in bonam partem, può avere in determinati periodi storici soprattutto se caratterizzati da regimi autoritari e tali da condizionare lo stesso potere giurisdizionale(16). L'assoluzione di crimini "di regime" è in questi periodi storico-politici di fondamentale importanza per la propria conservazione ed evoluzione. Si tratta peraltro, pur sempre, di fasi gravemente patologiche rispetto alle quali non si può dire che l'ammissione dell'analogia in bonam partem possa costituire il fattore essenziale della degenerazione o comunque un suo aspetto di particolare rilevanza. Basti pensare al regime della Germania nazionalsocialista, che portò addirittura alla modificazione del principio base, vale a dire quello della legalità, attraverso un'operazione che sta a presupposto dell'applicazione giudiziale, investendo lo stesso momento legislativo (v. supra, § 4). E la patologia del momento storico era comprovata ad abundantiam proprio da quella grave degenerazione degli stessi rapporti tra poteri che conduceva all'asservimento di settori importantissimi della magistratura al potere politico. Comunque sia, sembra chiaro che in momenti critici per la legalità dovrebbe accertarsi quanto le assoluzioni "di regime" dipendano da precise scelte di schietta e magari conclamata opportunità politica piuttosto che dalla strumentalizzazione di rimedi squisitamente tecnico-giuridici come quello dell'analogia (in bonam partem).

Passiamo ora ad una precisazione sui rapporti intercorrenti tra i due caratteri della determinatezza e della tassatività della norma e della fattispecie penale, poiché essi non di rado vengono confusi.

Un problema di tassatività può propriamente sorgere solo quando un reato sia sufficientemente determinato in astratto dalla legge; o, più precisamente, rispetto a quei tratti del reato che siano sufficientemente determinati. Dove c'è indeterminatezza, non è più il giudice che travalica i confini della norma, ma è questa che non li pone violando il principio di stretta legalità.

d) La determinatezza e la tassatività della figura legale del reato presuppongono che essa sia prevista in forma (sufficientemente) chiara. Non si può neppure controllare la determinatezza e la tassatività della figura criminosa se la formula che ne esprime i confini, per la sua ambiguità, non consente un'interpretazione univoca, al di là di ogni ragionevole dubbio. La norma va perciò considerata tamquam non esset nella parte in cui il suo contenuto di incriminazione è dubbio. Il carattere della "chiarezza" trova una precisa conferma negli articolo 12 e 14 disp. prel. L'articolo 12 individua infatti nel "caso dubbio" il punto-limite oltre il quale l'interpretazione non può andare; e l'articolo 14 dispone che in casu dubio la norma può trovare applicazione solo mediante ricorso alla analogia, la quale però - si è visto - è vietata sicuramente in penale ove operi in malam partem. Si dimostra perciò che il dubbio normativo esclude la condanna(17).

(16) Cfr. ad esempio BARATTA, Positivismo giuridico e scienza del diritto penale, Milano, 1966, 19 s. in nota.

(17) Più diffusamente sul principio di chiarezza della norma incriminatrice, cfr. FIORELLA, Emissione di assegno a vuoto, cit., 1007 ss.; ID., Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell'impresa, Firenze, 1984, 96 ss.

(16) Cfr. ad esempio BARATTA, Positivismo giuridico e scienza del diritto penale, Milano, 1966, 19 s. in nota.

(17) Più diffusamente sul principio di chiarezza della norma incriminatrice, cfr. FIORELLA, Emissione di assegno a vuoto, cit., 1007 ss.; ID., Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell'impresa, Firenze, 1984, 96 ss.

8. La struttura del reato. Le moderne sistematiche. Sintesi dei prodromi.

Nell'analisi della "struttura" del reato, si sono nel tempo fondamentalmente fronteggiate due sistematiche(18). La prima sembra definibile come naturalistico - descrittiva, la seconda come teleologica, almeno in senso lato; quest'ultima ammette poi fondamentalmente la sottodistinzione nella sistematica teleologico-funzionale ed in quella teleologico-valutativa, a seconda che gli elementi del reato siano scomposti, guardando, rispettivamente, alle finalità del diritto penale e/o al bene ed ai valori tutelati dalla norma penale ed offesi dal reato. A noi sembra trattarsi di prospettive definitorie non antagonistiche, ma complementari. Analizziamole più attentamente.

a) La moderna prospettiva naturalistico-descrittiva (che consente di enucleare la struttura "descrittiva" del reato, altrimenti definibile quale struttura "formale"), come del resto la moderna prospettiva teleologica nelle sue diverse evoluzioni, muove dalla distinzione tipica della teoria del reato e propria del diritto comune tra imputatio facti e imputatio iuris; caratterizzandosi, però, per l'originare una serie di visioni aventi come schema di fondo quello rappresentato in Carrara dalle due forze, la forza fisica e la forma morale(19), e corrispondente all'attuale bipartizione (teoria bipartita, v. infra, § 10) tra elemento oggettivo (o elemento materiale o fatto) ed elemento soggettivo (o psicologico).

b) Quanto alla prospettiva che qui latamente definiamo come teleologica, per coglierne le grandi linee di evoluzione (e che ha portato lentamente ad erigere la struttura "teleologica" del reato, denominabile altrimenti come struttura "funzionale" o "valutativa"), essa ha percorso progressivamente nel tempo una serie di tappe a partire dalla prima metà dell'800, soprattutto per merito dei grandi dommatici tedeschi. Si iniziò con l'enucleazione del concetto di illecito in opposizione a quello di imputazione(20); distinzione che diverrà poi quella tra l'antigiuridicità e la colpevolezza, quali attributi dell'azione (o fatto). Il concetto di antigiuridicità acquisì via via maggior nitore quale elemento autonomo del reato, sotto forma di antigiuridicità oggettiva(21). Parallelamente veniva a precisarsi ed affermarsi il concetto normativo di colpevolezza(22). Col perfezionarsi dei concetti di antigiuridicità e colpevolezza, si perfezionava anche il concetto di azione, attorno al quale essi ruotavano e si rendeva chiaro che l'azione di cui si parlava era l'azione "tipica", intendendosi la tipicità come corrispondenza (dell'azione) al "ritaglio" legislativo della figura dell'illecito munito di penalistico rilievo(23).

Pietra miliare nell'evoluzione dell'analisi (passaggio dall'800 al '900) furono i sistemi dei Liszt(24) e Beling(25); quest'ultimo sancì: il reato è l'azione tipica (oggettivamente) antigiuridica e colpevole(26).

Questa concezione (tetrapartita) ha avuto grande seguito nella scienza del diritto penale, subendo però nel tempo rilevantissime evoluzioni che, da una parte, hanno illustrato come essa contenesse in embrione le ragioni dommatiche che avrebbero incrinato la distinzione "oggettivo-soggettivo", e, dall'altra, hanno messo a nudo anche tutta la sua vocazione teleologica.

L'analisi faceva anche maturare due poli alternativi d'attenzione: da un canto, il fatto di reato, dall'altro, il suo autore. Sotto il primo profilo il reato veniva visto come complesso di disvalori inerenti al fatto materiale o psicologico. Sotto il secondo profilo veniva invece visto (siamo negli anni Trenta di questo secolo) come disobbedienza ed infedeltà, slittando l'enfasi verso il momento più squisitamente personale e prendendo così corpo la concezione del reato come fatto rivelatore d'un tipo d'autore.

Partiamo dall'approfondimento di quest'ultima concezione, non solo per la sua importanza storica, ma anche perché la sua critica ci permetterà di com…islazione penale italiana sui crimini di guerra e i livelli di penalizzazione imposti ora dal legislatore internazionale, anche dopo i Protocolli aggiuntivi del 1977, è legato soltanto a quel minimum di novità dettate dalle sopravvenute esperienze belliche o dalla sensibilità verso tematiche prima non sufficientemente mature.

Senza pretesa di completezza: a) manca una sanzione per la violazione del diritto a un "regolare e imparziale" giudizio, riconosciuto a chiunque, in qualsiasi circostanza (articolo 130 della terza Convenzione di Ginevra del 1949; articolo 147 della quarta Convenzione di Ginevra del 1949; articolo 85 numero 4 lett. e del I Protocollo aggiuntivo del 1977, in relazione all'articolo 75 dello stesso testo), anzi in alcuni casi essa è espressamente tollerata (articolo 183 e 241 codice penalemil.g.)(214); b) manca una sanzione per chi esegue, o dà ordine o autorizza l'esecuzione di pene collettive nei confronti della popolazione civile, espressamente consentite dall'articolo 65 legge n. 1415 del 1938, sulla falsariga dell'ormai superato articolo 50 del regolamento annesso alla quarta Convenzione dell'Aia del 1907(215); c) risulta insufficiente, e comunque non specifica, la disciplina penale applicabile ai fatti di déportation, transfert illégaux, détention illégale, prise d'otages - quest'ultima espressamente ammessa dall'articolo 219 codice penalemil.g.(216) -, retard injustifié dans le rempatriement des prisonniers de guerre ou des civils, che le norme internazionali considerano crimini di guerra e per i quali stabiliscono l'obbligo della sanzione penale (articolo 147 della quarta Convenzione di Ginevra del 1949; articolo 85 numero 4 lett. a e b, e numero 5 del I Protocollo aggiuntivo del 1977); d) resta insufficiente la tutela penale della persona comunque coinvolta nella guerra (articolo 185 e 209 ss. codice penalemil.g.) che deve anche essere protetta da esperimentazioni mediche o scientifiche e prelevamenti di tessuti o organi per trapianti (articolo 147 della quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e articolo 11 n.2 lett. b e c del I Protocollo aggiuntivo del 1977).

Ma il legislatore italiano non dovrebbe limitarsi a meri ritocchi per l'adeguamento(217) a una normativa, la quale non può che costituire, per sua natura, soltanto il minimo comune denominatore faticosamente cristalizzato tra i molteplici interessi degli Stati che popolano la comunità internazionale. L'opportunità di ripensare "unilateralmente" a un moderno sistema di disciplina penale della violenza bellica - che non soltanto sappia andare al di là delle sedimentate soluzioni del diritto internazionale, ma che sia in grado di offrire spunti utilizzabili in futuro in quella sede(218) - risulta dal contesto in cui la Costituzione italiana colloca l'idea della vicenda bellica: lungi dal realizzare una parentesi in cui vengano meno le garanzie fondamentali della persona o l'esigenza di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico (articolo 9 comma 2 cost.), la guerra, che viene ripudiata come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (articolo 11 cost.), costituisce un fatto storico la cui eventualità non è disconosciuta dal Costituente, ma che può soltanto determinare le deroghe ai princìpi fondamentali espressamente previste (pena di morte; poteri necessari al Governo; giurisdizione dei tribunali militari stabilita dalla legge; possibilità di escludere il ricorso in cassazione per i provvedimenti di questi organi)(219).

Ne consegue l'esigenza di assicurare, in linea di massima, anche in tempo di guerra adeguata tutela penale a quegli stessi beni che vengono protetti in tempo di pace; ciò che comporta indubbiamente la necessità di affinare gli strumenti in relazione alla specifica situazione e segnatamente ai mezzi che si preveda possano venir impiegati per offendere quei beni. Sulla base di questa premessa, l'opportunità di passare da un sistema penale di tutela di interessi umanitari fondato sulla visuale arcaica di una guerra di persone a un agile strumento legislativo che inquadri la vicenda bellica come uno "scontro di mezzi", diventa un preciso obbligo per il legislatore, non già in base a datati impegni internazionali, ma per tener fede - in parte qua - all'intento programmatico con cui si apre il testo costituzionale.

È altresì chiaro che, in tal modo, una legislazione incentrata sui 'mezzi' bellici possa portare a una commistione fra "crimini contro la pace", "crimini di guerra" e "crimini contro l'umanità"(220), fra "diritto per la pace" e "diritto nella guerra", fra "diritto dell'Aia" e "diritto di Ginevra", ma le preoccupazioni dogmatico-sistematiche non possono certo costituire un valido alibi per giustificare il mancato allineamento dell'arma del diritto alla insidiosità delle armi moderne(221), se è vero che in un diritto credibile ed efficace è ormai da vedere la sola forza capace di contenere l'altrimenti incoercibile forza delle armi(222). Né lo stesso alibi può consistere nella considerazione per cui «la difesa dei più importanti beni giuridici dell'umanità, nell'epoca delle armi atomiche, della sovrapopolazione, della fame in vasti territori»(223) sarebbe assicurata efficacemente soltanto da un diritto internazionale penale e da una giurisdizione penale internazionale, perché un obiettivo, per quanto sia lontano, non può essere raggiunto, se non cominciando a compiere il primo passo.

David Brunelli

(213) BONAGURA, Profili dell'adeguamento della legislazione penale militare di guerra italiana alle convenzioni di Ginevra del 1949, in Riv. pen., 1972, 83; nello stesso senso, VEUTRO, Diritto penale militare, cit., 497; FUMO, Il sistema penale militare bellico alla luce delle convenzioni di Ginevra del 1949 e della carta costituzionale, in Arch. pen., 1985, 558.

(214) Sul punto, diffusamente, BONAGURA, op. cit., 89 ss., il quale ritiene implicitamente abrogati, in parte qua, gli articolo 189 e 241 ed evidenzia le gravi antinomie che tale abrogazione ha prodotto nell'ordinamento.

(215) Cfr. articolo 87 comma 3 della terza Convenzione di Ginevra del 1949; articolo 33 comma 1 della quarta Convenzione di Ginevra del 1949; articolo 75 numero 2 lett. d del I Protocollo aggiuntivo; articolo 4 numero 2 lett. b del II Protocollo aggiuntivo. Sui limiti dell'attuale vigenza dell'articolo 65 della legge di guerra, v. ampliamente VENDITTI, Il diritto penale militare, cit., 289 ss.

(216) Peraltro, i dubbi espressi dalla dottrina sulla attuale vigenza dell'articolo 219 (FUMO, op. cit., 560) acquistano ora una particolare forza a seguito della legge 26 novembre 1985, numero 718 che, ratificando e dando esecuzione alla Convenzione contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979, ha previsto il reato di chi, fuori dei casi indicati negli articolo 289 bis e 630 codice penale, sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra più governi, una persona fisica o giuridica od una collettività di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione (articolo 3): v. il commento a tale norma, di PAGLIARO, in Legislazione penale, 1986, 242 ss.

(217) Sottolinea altri profili di adeguamento all'ordinamento internazionale, VEUTRO, op. cit., 496 s.

(218) Si ricordi, peraltro, che il diritto bellico ha avuto origine negli ordinamenti dei singoli Stati.

(219) FUMO, op. cit., 561, evidenzia come l'esigenza costituzionale di mirare sempre - e quindi anche in tempo di guerra - al conseguimento della pace o quanto meno alla giustizia nei rapporti con le altre nazioni implicitamente comporta consistenti limiti all'uso della violenza bellica in guerra, escludendo la legittimità di comportamenti quali la presa di ostaggi, la deportazione, ecc.

(220) È la nota tripartizione contenuta negli statuti istitutivi dei Tribunali militari internazionali dopo la seconda guerra mondiale.

(221) Per un'analisi del mutamento dei rapporti e della tensione tra i due poli della "forza" e del "diritto" nella comunità internazionale dopo la seconda guerra mondiale, CASSESE, Violenza e diritto nell'era nucleare, Bari, 1986.

(222) VEUTRO, La forza del diritto e la forza delle armi nella guerra moderna, in L'Aéronef Militaire e le Droit des Gens. Subordinations et Coopération Militaire Internationale (Atti del II Congresso internazionale della Société internationale de droit pénal militaire et de droit de la guerre, Firenze, 17-20 maggio 1961), Strasbourg, 1963, 140 s.

(223) Già JESCHECK, Stato attuale, cit., 698, sottolineava questi profili, ormai attualissimi.

(213) BONAGURA, Profili dell'adeguamento della legislazione penale militare di guerra italiana alle convenzioni di Ginevra del 1949, in Riv. pen., 1972, 83; nello stesso senso, VEUTRO, Diritto penale militare, cit., 497; FUMO, Il sistema penale militare bellico alla luce delle convenzioni di Ginevra del 1949 e della carta costituzionale, in Arch. pen., 1985, 558.

(214) Sul punto, diffusamente, BONAGURA, op. cit., 89 ss., il quale ritiene implicitamente abrogati, in parte qua, gli articolo 189 e 241 ed evidenzia le gravi antinomie che tale abrogazione ha prodotto nell'ordinamento.

(215) Cfr. articolo 87 comma 3 della terza Convenzione di Ginevra del 1949; articolo 33 comma 1 della quarta Convenzione di Ginevra del 1949; articolo 75 numero 2 lett. d del I Protocollo aggiuntivo; articolo 4 numero 2 lett. b del II Protocollo aggiuntivo. Sui limiti dell'attuale vigenza dell'articolo 65 della legge di guerra, v. ampliamente VENDITTI, Il diritto penale militare, cit., 289 ss.

(216) Peraltro, i dubbi espressi dalla dottrina sulla attuale vigenza dell'articolo 219 (FUMO, op. cit., 560) acquistano ora una particolare forza a seguito della legge 26 novembre 1985, numero 718 che, ratificando e dando esecuzione alla Convenzione contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979, ha previsto il reato di chi, fuori dei casi indicati negli articolo 289 bis e 630 codice penale, sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra più governi, una persona fisica o giuridica od una collettività di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione (articolo 3): v. il commento a tale norma, di PAGLIARO, in Legislazione penale, 1986, 242 ss.

(217) Sottolinea altri profili di adeguamento all'ordinamento internazionale, VEUTRO, op. cit., 496 s.

(218) Si ricordi, peraltro, che il diritto bellico ha avuto origine negli ordinamenti dei singoli Stati.

(219) FUMO, op. cit., 561, evidenzia come l'esigenza costituzionale di mirare sempre - e quindi anche in tempo di guerra - al conseguimento della pace o quanto meno alla giustizia nei rapporti con le altre nazioni implicitamente comporta consistenti limiti all'uso della violenza bellica in guerra, escludendo la legittimità di comportamenti quali la presa di ostaggi, la deportazione, ecc.

(220) È la nota tripartizione contenuta negli statuti istitutivi dei Tribunali militari internazionali dopo la seconda guerra mondiale.

(221) Per un'analisi del mutamento dei rapporti e della tensione tra i due poli della "forza" e del "diritto" nella comunità internazionale dopo la seconda guerra mondiale, CASSESE, Violenza e diritto nell'era nucleare, Bari, 1986.

(222) VEUTRO, La forza del diritto e la forza delle armi nella guerra moderna, in L'Aéronef Militaire e le Droit des Gens. Subordinations et Coopération Militaire Internationale (Atti del II Congresso internazionale della Société internationale de droit pénal militaire et de droit de la guerre, Firenze, 17-20 maggio 1961), Strasbourg, 1963, 140 s.

(223) Già JESCHECK, Stato attuale, cit., 698, sottolineava questi profili, ormai attualissimi.

FONTI.

articolo 10, 11, 52 cost.; articolo 13, 165-230, 248, 249 codice penalemil.g.; legge 27 ottobre 1951, numero 1739; legge 11 dicembre 1985, numero 762. Le vigenti convenzioni di diritto bellico sono raccolte nel volume di VERRI, Diritto per la pace e diritto nella guerra, Roma, 1980; importante, inoltre, il volume di MUZZIOLI, Raccolta delle convenzioni internazionali del diritto bellico terrestre, marittimo ed aereo, Firenze, 1938, che riporta il testo delle convenzioni in francese; il testo ufficiale delle Convenzioni di Ginevra del 1949 si trova in gazzetta ufficiale 1° marzo 1952, numero 53, suppl. e dei Protocolli aggiuntivi del 1977, in gazzetta ufficiale 27 dicembre 1985, numero 303, suppl.

LETTERATURA.

VICO Diritto penale comune di guerra, Roma, 1932;

SUCATO Istituzioni di diritto penale militare, II, Roma, 1941;

CIARDI I nuovi codici penali militari, Milano, 1942;

MANASSERO I codici penali militari, Milano, 1942;

VEUTRO Diritto penale militare, in LANDI, VEUTRO, STELLACCI e VERRI, Manuale di diritto e procedura penale militare, Milano, 1976;

VENDITTI Il diritto penale militare nel sistema penale italiano5, Milano, 1985;

MERANGHINI Reati contro le leggi e gli usi della guerra, in Enc. forense, IV, 1961, 113 ss.;

CAVALCASELLE Prigionieri di guerra (Diritto penale militare), in Nss.D.I., XIII, 1966, 845 ss.;

ANTUOFERMO Requisizioni, contribuzioni e prestazioni militari (Reati concernenti le), ivi, XV, 1968, 498 ss.;

MONTARULI Feriti, infermi, naufraghi o morti e personale sanitario (Violazione dei doveri verso) (Diritto penale militare), ivi, VII, 1961, 213 ss.;

ROSSO Guerra (Atti illeciti di), ivi, VIII, 1962, 58 ss.;

MONTARULI Ostilità (Atti illegittimi o arbitrari di), ivi, XII, 1965, 285 ss.;

ORECCHIO Prede belliche (Abuso delle), ivi, XIII, 1966, 585 ss.;

BONAGURA Profili dell'adeguamento della legislazione penale militare di guerra italiana alle convenzioni di Ginevra del 1949, in Riv. pen., 1972, 82 ss.;

FUMO Il sistema penale militare bellico alla luce delle convenzioni di Ginevra del 1949 e della carta costituzionale, in Arch. pen., 1985, 541 ss.

Per gli indispensabili riferimenti di diritto bellico, di diritto internazionale penale con particolare riguardo al crimini di guerra, cfr., in via di primo approccio, rispettivamente: BALLADORE PALLIERI, Diritto bellico, Padova, 1955;

CANSACCHI Nozioni di diritto internazionale bellico, Torino, 1973;

VERRI I protocolli aggiuntivi alle convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, Roma, 1978;

QUADRI Diritto penale internazionale, Padova, 1944;

LEVI Diritto penale internazionale, Milano, 1949;

BELLINI I crimini internazionali, in Arch. pen., 1948, 141 ss.;

JESCHECK Stato attuale e prospettive future del diritto internazionale penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1964, 681 ss.;

BASSIOUNI Il diritto penale internazionale: contenuto e scopo nel suo sviluppo storico, in Giust. pen., 1979, I, 55 ss.;

NUVOLONE La punizione dei crimini di guerra, Roma, 1945;

LENER Crimini di guerra e delitti contro l'umanità, Roma, 1946;

VEDOVATO La punizione dei crimini di guerra, in Riv. st. pol. intern., 1945, 141 ss.;

VASSALLI G. Intorno al fondamento giuridico della punizione dei crimini di guerra, in Giust. pen., 1947, II, 618 ss.;

ID. I crimini di guerra, in Enc. it., II appendice, I, 1948, 1101 ss.;

MARINA Diritto bellico e crimini di guerra, Livorno, 1950.

XI. - Reati del personale di polizia.

Allegato

1. Reati del personale di polizia.

L'articolo 23 comma 1 legge 1° aprile 1981, numero 121 («nuovo ordinamento dell'amministrazione della pubblica sicurezza») ha disposto lo scioglimento del corpo delle guardie di pubblica sicurezza e del corpo di polizia femminile, dipendenti dal Ministero dell'interno (r.d.l. 2 aprile 1925, numero 383, convertito in legge 25 marzo 1926, numero 748, modificato dal r.d.l. 31 luglio 1943, numero 687, convertito in legge 5 maggio 1949, numero 178, e dal d.lg.lt. 2 novembre 1944, numero 365; legge 7 dicembre 1959, numero 1083). Il primo faceva parte delle forze armate dello Stato e di quelle in servizio di pubblica sicurezza; i suoi componenti erano soggetti, per tutti i reati preveduti dalla legge penale militare, di pace e di guerra, alle pene da essa comminate, ed alla giurisdizione militare (articolo 1 e 2 r.d.l. numero 687, cit.)(1); al personale del secondo si applicavano invece di regola le disposizioni concernenti gli impiegati civili dello Stato (articolo 3 legge n. 1083, cit.).

Nei compiti e nelle attribuzioni dei corpi disciolti è subentrata la polizia di Stato (v. Polizia: diritto pubblico ) che espleta i servizi d'istituto con personale maschile e femminile, con parità d'attribuzioni, di funzioni, di trattamento economico e di progressione di carriera (articolo 25 e 26 legge n. 121, cit.). Al detto personale, per quanto non previsto dalla legge n. 121, cit., si applicano, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato (articolo 23 comma 5 legge n. 121, cit.). In conseguenza, esso è soggetto alla giurisdizione penale dell'autorità giudiziaria ordinaria, secondo le norme vigenti, e quelle contenute negli articolo 71-80 legge n. 121, cit.

Peraltro, il carattere della polizia di Stato, che è un corpo armato ed organizzato, con delicati compiti di difesa delle istituzioni costituzionali e delle libertà e dei diritti dei cittadini, ha imposto la configurazione d'una serie di ipotesi criminose (in parte analoghe a previsioni del codice penalemil.p.), che, non avendo rispondenza nel diritto penale comune, sarebbero sfuggite alla giurisdizione penale ordinaria(2). I delitti, previsti dagli articolo 72-78 legge n. 121, cit., sono:

a) l''abbandono del posto di servizio' (articolo 72): è il fatto dell'appartenente alla polizia di Stato che nel corso d'operazioni di polizia o durante l'impiego in reparti organici abbandona il posto o il servizio o viola l'ordine o le disposizioni generali o speciali impartite. La pena è della reclusione fino a tre anni; e da uno a quattro anni, o da due a cinque anni, se si verificano le circostanze aggravanti rispettivamente previste dal comma 2 e dal comma 3 dell'articolo 72, cit.;

b) la 'rivolta' (articolo 73) corrisponde, in sostanza, all'ipotesi dell'articolo 174 codice penalemil.p.(3): i partecipi, però, debbono essere non meno di cinque, che prendono arbitrariamente le armi e rifiutano d'obbedire all'ordine di deporle intimato da un superiore, oppure rifiutano d'obbedire all'ordine d'un superiore, di recedere da gravi atti di violenza. La pena è della reclusione da tre a dieci anni, e non inferiore a cinque anni per chi ha promosso, organizzato o diretto la rivolta;

c) l''associazione al fine di commettere il delitto di rivolta' (articolo 74) riproduce la previsione dell'att. 178 codice penalemil.p. 1 partecipi debbono essere non meno di cinque; la pena è della reclusione da uno a quattro anni; non sono punibili coloro che impediscono l'esecuzione del delitto;

d) il 'movimento non autorizzato di reparto' (articolo 75) corrisponde all'articolo 115 codice penale mil.p.(4). È punito con la reclusione fino ad un anno, sempre che il fatto non costituisca più grave reato;

e) le 'manifestazioni collettive pubbliche con l'uso di mezzi od armi della polizia' (articolo 76) sono vietate agli «appartenenti all'Amministrazione della pubblica sicurezza»: cioè anche al personale che non espleta propriamente funzioni di polizia (v. i d.P.R. 24 aprile 1982 numero 335-341). La fattispecie è, per esempio, quella di manifestazione dove hanno impiego automezzi di servizio. La pena è della reclusione sino a sei mesi, o della multa da lire cinquantamila a lire un milione, aumentata fino a nove mesi di reclusione e lire un milione e mezzo di multa per coloro che hanno promosso, organizzato o diretto la manifestazione. Coloro che vi partecipano col possesso di armi sono puniti con la reclusione da sei mesi a due anni;

f) l''alterazione di armi o munizioni, ed il porto d'armi non in dotazione' (articolo 77), commessi dagli appartenenti alla polizia di Stato, sono puniti con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a lire due milioni; alle stesse pene è sottoposto il superiore gerarchico che consente tali fatti;

g) l''arbitraria utilizzazione di prestazioni lavorative' (articolo 78): la norma concerne «il pubblico ufficiale» (anche dunque non appartenente all'amministrazione della pubblica sicurezza) che utilizza arbitrariamente le prestazioni lavorative di personale della detta amministrazione, in contrasto con i compiti d'istituto, al fine di realizzare un profitto proprio o d'altri (fattispecie del magistrato che utilizzi la «scorta» assegnatagli per servizio, per finalità private). La pena è della reclusione fino a due anni.

Tutti i delitti suelencati sono dolosi. Per la punibilità di quello previsto dall'articolo 78 occorre altresì il «dolo specifico» (v. Dolo: diritto penale, § 13 ), cioè l'intento di realizzare un profitto proprio o altrui.

Gli appartenenti alle forze di polizia di cui all'articolo 16 legge n. 121, cit., condannati per qualsiasi reato, possono chiedere di scontare la pena detentiva negli stabilimenti penali militari (articolo 79 legge n. 121, cit.). Trattasi d'una precauzione volta a sottrarre tali condannati alla promiscuità indecorosa e spesso pericolosa con i detenuti per reati comuni.

Per i delitti di cui agli articolo 72, 73, 74, 75, 76 e 77 legge n. 121, cit. si procede in ogni caso col giudizio direttissimo (v.), salvo che siano necessarie speciali indagini. Per i reati connessi, si procede previa separazione dei giudizi (articolo 80 legge n. 121, cit.).

(1) Il r.d.l. numero 687 del 1943 «militarizzò», per esigenze di guerra, il preesistente corpo degli agenti di pubblica sicurezza (r.d.l. numero 383 del 1925). Il nome fu mutato dal d.lg.lt. numero 365 del 1944. Cfr. RENATO, Gli ordinamenti della Pubblica sicurezza, in Cento anni di Amministrazione italiana, Roma, 1962, 331 ss.

(2) I doveri del personale della pubblica sicurezza sono stabiliti dagli articolo 62-69 legge n. 121 del 1981. Sanzioni e procedimenti disciplinari sono regolati dal d.P.R. 25 ottobre 1981, numero 737.

(3) VEUTRO, Diritto penale militare, in LANDI, VEUTRO, STELLACCI, VERRI, Manuale di diritto e di procedura penale militare, Milano, 1976, lb. II, 416 ss.

(4) VEUTRO, op. cit., p. 327.

(1) Il r.d.l. numero 687 del 1943 «militarizzò», per esigenze di guerra, il preesistente corpo degli agenti di pubblica sicurezza (r.d.l. numero 383 del 1925). Il nome fu mutato dal d.lg.lt. numero 365 del 1944. Cfr. RENATO, Gli ordinamenti della Pubblica sicurezza, in Cento anni di Amministrazione italiana, Roma, 1962, 331 ss.

(2) I doveri del personale della pubblica sicurezza sono stabiliti dagli articolo 62-69 legge n. 121 del 1981. Sanzioni e procedimenti disciplinari sono regolati dal d.P.R. 25 ottobre 1981, numero 737.

(3) VEUTRO, Diritto penale militare, in LANDI, VEUTRO, STELLACCI, VERRI, Manuale di diritto e di procedura penale militare, Milano, 1976, lb. II, 416 ss.

(4) VEUTRO, op. cit., p. 327.

XII. - Reati dei ministri di culto (diritto ecclesiastico).

Allegato

1. Premessa.

Il problema della qualificazione - anche ai fini penalistici - della figura del ministro di culto nell'ordinamento italiano comporta necessariamente alcune considerazioni d'ordine preliminare. Anche da un punto di vista meramente terminologico, infatti, è opportuno specificare che mentre il legislatore statuale usa la dizione «ministro di culto» per indicare indifferentemente sia il ministro di culto cattolico che quello acattolico, in sede concordataria il legislatore usa, invece, preferibilmente il termine di «ecclesiastico» come si evince espressamente dall'articolo 4 del nuovo Concordato (18 febbraio 1984). Per quel che concerne, poi, il diritto canonico, va sottolineato come il codex iuris canonici del 1983, particolarmente sensibile ai profondi mutamenti storici che si sono verificati nella struttura ecclesiale, ha evidenziato la figura comune dei christifideles (can. 204 § 1), affermando che tutti i fedeli, incorporati a Cristo mediante il battesimo, costituiscono il «popolo di Dio» e, secondo la condizione giuridica a ciascuno propria, sono chiamati a esercitare la missione salvifica che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo.

Viene, inoltre, precisato che tra i fedeli, per divina istituzione, esiste una chiara distinzione tra coloro che sono ministri sacri, detti anche chierici, e gli altri che sono invece definiti laici(1). Il codex, pertanto, pur ribadendo l'assoluta eguaglianza tra tutti i fedeli cristiani, usa la terminologia giuridicamente rilevante di chierico per indicare i ministri sacri, mentre dà una definizione meramente negativa del concetto di laico. Sempre da un punto di vista canonistico, i chierici, in quanto chiamati a svolgere il più alto ordine di mansioni, devono essere privati di ogni incombenza di carattere statualistico - pur continuando a essere cittadini - che possa in qualche modo ostacolare il pieno esercizio della propria missione salvifica nel mondo (can. 289): da qui tutta una serie di esenzioni - come l'immunità o la specialità di foro - rivendicate dalla Chiesa e non riconosciute dallo Stato. Dal punto di vista statualistico, infatti, l'ecclesiastico resta comunque assoggettato a ogni dovere d'ordine temporale, pur essendo particolarmente tutelata la sua posizione, affinché si eviti che esso possa trovarsi a ricoprire cariche o funzioni pubbliche che possano in qualche modo pregiudicare lo svolgimento della propria missione secolare, oppure sottrarlo ai propri doveri nei confronti dell'autorità ecclesiastica, sia in materia spirituale che disciplinare. Come dicevamo, il legislatore italiano usa il termine omnicomprensivo di «ministro di culto»(2) che, se per un verso si riferisce anche ai ministri di culto acattolici, per quel che concerne il diritto della Chiesa sembra riferibile ai soli «ministri sacri», ossia a coloro i quali secondo il diritto canonico sono investiti delle potestà ecclesiastiche, essendo escluso che esso possa riguardare anche altre figure a caratterizzazione prettamente liturgica. Al proposito sembra pure da escludere che quello di ecclesiastico possa costituire uno status per il diritto statuale, simile a quello di cittadinanza o di afferenza al diritto familiare, mentre sembra più corretto fare riferimento ad alcune situazioni dalle quali il diritto dello Stato fa scaturire determinati effetti in gran parte limitati alle situazioni stesse. Si può dunque affermare che, anche quando gli ecclesiastici siano investiti di una pubblica funzione, essi non possono comunque essere considerati titolari di uno status, bensì assumono rilevanza per il diritto statuale solo e in quanto siano destinatari di apposite disposizioni di legge che hanno come presupposto l'esistenza di una posizione che li concerne sotto il profilo canonistico.

(1) Cfr. can. 207 § 1: «Ex divina institutione, inter christifideles sunt in Ecclesia ministri sacri, qui in iure et clerici vocantur; ceteri autem et laici noncupantur».

(2) Su tale problematica cfr. per tutti FERRABOSCHI, Ecclesiastici (diritto ecclesiastico), in questa Enciclopedia, XIV, 250 ss.; PETRONCELLI HÜBLER, Ancora sulla posizione dei ministri dei culti acattolici nell'ordinamento italiano, in Arch. giur., 1972, 93; VANNICELLI, Sulla condizione giuridica dei ministri di culto, in Studi in onore di P.A. d'Avack, III, Milano, 1976, 977.

(1) Cfr. can. 207 § 1: «Ex divina institutione, inter christifideles sunt in Ecclesia ministri sacri, qui in iure et clerici vocantur; ceteri autem et laici noncupantur».

(2) Su tale problematica cfr. per tutti FERRABOSCHI, Ecclesiastici (diritto ecclesiastico), in questa Enciclopedia, XIV, 250 ss.; PETRONCELLI HÜBLER, Ancora sulla posizione dei ministri dei culti acattolici nell'ordinamento italiano, in Arch. giur., 1972, 93; VANNICELLI, Sulla condizione giuridica dei ministri di culto, in Studi in onore di P.A. d'Avack, III, Milano, 1976, 977.

2. Le singole fattispecie criminose.

Abbiamo già rilevato come il legislatore statuale prenda in considerazione i ministri di culto solo in specifiche disposizioni legislative che li riguardano, senza configurare uno status a sé stante di ecclesiastico. Tra queste disposizioni, assumono particolare rilevanza quelle di natura penalistica che concernono sia determinate norme per così dire di «protezione», sia alcune norme di «incriminazione». Ed è il caso di rammentare, come già detto, che nella fattispecie il legislatore penale fa un più generico riferimento ai cosiddetti «ministri di culto», considerando, quindi, anche quelli di tipo acattolico. Più specificamente, il legislatore penale prevede quali reati dei ministri di culto quelli di cui agli articolo 6 legge n. 9 e 327 codice penale

In effetti, poiché gli ecclesiastici, come i ministri di qualunque altro culto, sono assoggettati alle leggi generali dello Stato, al pari di ogni altro cittadino, prescindendo nei loro confronti da qualsiasi immunità o specialità di foro, si prevede anche per essi l'applicazione delle pene stabilite dalle leggi là dove vi siano gli estremi dell'imputabilità(3).

In particolare, l'articolo 6 legge n. 9 codice penale considera «circostanza aggravante comune» a tutti i reati che la comportino, l'avere commesso il fatto con abuso di poteri, o con violazione dei doveri inerenti alla «qualità di un ministro di un culto», al pari di quelli inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio. In questi casi, se l'aumento di pena non è stabilito dalla legge, l'articolo 64 codice penale stabilisce che è aumentata fino a un terzo la pena che dovrebbe essere inflitta per il reato commesso. L'articolo 327 codice penale, invece, prevede il caso di «eccitamento al dispregio e vilipendio delle istituzioni, delle leggi o degli atti dell'autorità»: è in questo configurato come reato autonomo (anche se di carattere sussidiario, e cioè sussistente quando l'elemento materiale del delitto non sia previsto come reato da altra disposizione di legge) il fatto dell'eccitamento al dispregio e vilipendio delle istituzioni o alla inosservanza delle leggi o degli atti dell'autorità o dei doveri inerenti a un pubblico ufficio o servizio, o dell'apologia di fatti contrari alle leggi, alle disposizioni dell'autorità o ai doveri suddetti, compiuto da un ministro di culto nell'esercizio delle sue funzioni, come da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio. In questo caso l'abuso delle funzioni da parte di un ministro del culto non costituisce circostanza aggravante, perché la qualità di ministro del culto è essenziale al soggetto attivo ed è quindi elemento costitutivo del reato: la pena applicabile sarà dunque quella stabilita dalla norma de qua. È forse appena il caso di accennare, in questa sede, che a fronte dei reati testé richiamati dei ministri di culto, il legislatore penale ha stabilito, per contro, una particolare protezione dei ministri stessi là dove all'articolo 6 legge n. 10 codice penale stabilisce quale circostanza aggravante comune di qualsiasi reato che la comporti (e determinante, quindi, un aumento della pena fino a un terzo) l'aver commesso il fatto contro una persona che rivesta la «qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato», nell'atto o a causa delle funzioni o del servizio, così come è prevista nei confronti di un pubblico ufficiale o di persona incaricata di un pubblico servizio, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di Stato estero.

Più significativo è invece notare come il nuovo Concordato del 1984 sia innovativo rispetto a quello precedente, là dove all'articolo 4, oltre a menzionare solo gli ecclesiastici e non più i religiosi, e oltre a ipotizzare(4) che l'autorità giudiziaria darà comunicazione all'autorità ecclesiastica competente per territorio dei procedimenti penali promossi a carico di ecclesiastici (mentre in precedenza si ipotizzava il deferimento al magistrato penale solo per i delitti e non per le contravvenzioni), abroga in toto quella normativa del vecchio Concordato (articolo 8) secondo la quale si prevedeva un trattamento speciale per l'ecclesiastico in caso di arresto o di espiazione di pena detentiva.

(3) V. al riguardo, ALOISI, Gli accordi lateranensi e i loro riflessi in materia penale, in RISG, 1934, 123.

(4) Cfr. Protocollo addizionale in relazione all'articolo 4 lett. b.

(3) V. al riguardo, ALOISI, Gli accordi lateranensi e i loro riflessi in materia penale, in RISG, 1934, 123.

(4) Cfr. Protocollo addizionale in relazione all'articolo 4 lett. b.

3. I cosiddetti «reati elettorali».

Sempre per restare in tema di reati dei ministri di culto, sembra opportuno menzionare quelli che ormai sogliono essere definiti come i «reati elettorali» dei ministri stessi(5). La questione, com'è noto, era stata posta dall'articolo 70 d.lg.lt. 10 marzo 1946, numero 74, concernente le norme per l'elezione dei deputati all'Assemblea costituente, che stabiliva la responsabilità penale del ministro di qualsiasi culto (come del pubblico ufficiale, dell'incaricato di un pubblico servizio o di chiunque sia investito di un pubblico potere o funzione civile o militare) che, abusando delle proprie attribuzioni e nell'esercizio di esse, si adoperi affinché gli elettori si risolvano a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati o a vincolare suffragi a favore o a pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati, o a indurli all'astensione. Tale norma fu ampiamente riprodotta in testi di legge successivi: così nell'articolo 71 t.u. 5 febbraio 1948, numero 26, per l'elezione della Camera dei deputati e resa valida anche per il Senato nell'articolo 25 legge 6 febbraio 1948, numero 29; nell'articolo 79 t.u. 5 aprile 1951, numero 203, per la composizione e l'elezione degli organi delle amministrazioni comunali; nell'articolo 98 t.u. delle leggi per l'elezione della Camera dei deputati approvato con d.P.R. 30 marzo 1957, numero 361, per l'elezione della Camera dei deputati, poi convalidata, come in precedenza, anche per l'elezione del Senato della Repubblica; nell'articolo 88 t.u. 16 maggio 1960, numero 570, per la composizione e l'elezione degli organi delle amministrazioni comunali, valevole anche per l'elezione del consiglio regionale articolo 1 legge 17 febbraio 1968, numero 108.

Il tema dell'interpretazione della succitata normativa, dopo un lungo periodo di silenzio, è stato riproposto da una serie di recenti pronunce giurisprudenziali, dal contenuto spesso difforme(6).

Ne è seguito, così, un vasto dibattito dottrinale soprattutto teso a definire il rapporto tra norme elettorali e norme concordatarie, specie in relazione alle norme costituzionali che concernono in misura diretta o indiretta la libertà religiosa. Al riguardo, infatti, è possibile rilevare che se le norme costituzionali si pongono come criteri generali d'interpretazione del nostro ordinamento, sembra indubbio che anche i problemi posti dalle norme elettorali trovino una più ampia specificazione, ove si consideri il fatto che quei princìpi costituzionali dovrebbero assurgere a criteri in base ai quali interpretare i singoli elementi che compongono la fattispecie penalistica. Va anzitutto sottolineato, in proposito, come elemento costante della varia produzione giurisprudenziale qui considerata sia il fattore religioso, e in particolare la qualifica di «ministro di culto» che riveste il soggetto attivo del reato. Anzi, nella specie, è stato esattamente osservato(7) come ormai la figura del ministro di culto assuma la duplice funzione sia di soggetto che agisce nell'esplicazione di una potestà autoritativa di cui è titolare quale organo della Chiesa, sia quale individuo che al pari degli altri cittadini ha il diritto di esprimere le proprie opinioni, prendendo posizione su particolari questioni di carattere sociale. Di più: è proprio quest'ultimo aspetto che assume grande rilievo, là dove si consideri il rapporto che viene a instaurarsi tra il ministro di culto e il fedele che deve assolvere la propria scelta elettorale. In effetti, è specie in virtù di un tale assunto che la normativa de qua viene a essere espressione non più di quella preoccupazione statualistica (di stampo ottocentesco) che mirava a proteggere il cittadino dall'azione dell'autorità ecclesiastica, bensì viene a essere interpretata come il riflesso del principio generale della tutela dei diritti di libertà di tutti i cittadini, tra i quali sono anche compresi i ministri di culto. In tale prospettiva, inoltre, il rapporto ministro di culto-fedele (elettore) potrebbe essere più proficuamente interpretato come «partecipazione di entrambi alla realizzazione di scopi e interessi comuni»(8). Assumendo un'ottica siffatta, anche la normativa penale che punisce l'abuso elettorale fungerebbe come ogni altra norma penale da strumento di propulsione della realtà sociale verso l'attuazione dei modelli costituzionali: in altri termini, collocando il «discorso dell'abuso unicamente al livello di problema che involge il rapporto tra uomini e non tra istituzioni»(9), si può giungere alla conclusione che le posizioni che il ministro di culto e il civisfidelis sono venuti ad assumere all'interno della fattispecie penalistica sono l'effetto di quello che potrebbe essere definito il passaggio da concezioni autoritative dello Stato a concezioni democratiche.

In tale prospettiva, infatti, le norme elettorali in esame non sembrano più fare specifico riferimento a una figura del ministro di culto in qualche modo assimilabile ai «pubblici ufficiali», ma sembrano indurre a considerare il rapporto ministro di culto-fedele «sotto un profilo maggiormente paritetico, meno gerarchico, e le attività da questi esplicate più in funzione partecipativa che in contrapposizione»(10). Questo significativo mutamento della posizione del ministro di culto all'interno dell'ordinamento statuale, d'altro canto, trova una sua più congrua specificazione ove si consideri l'opportunità o meglio ancora la necessità di una più corretta interpretazione della normativa penale che si fondi su una adeguata valutazione di quei princìpi costituzionali che sono preordinati alla difesa e allo sviluppo della persona umana nell'àmbito della vita associativa.

In effetti, assumendo una simile impostazione in tema di abuso elettorale dei ministri di culto, si può giungere a una più idonea collocazione del rapporto ministro di culto-civisfidelis nell'àmbito di quelle espressioni e strumenti di partecipazione degli individui alla vita comunitaria - come, peraltro, viene ampiamente testimoniato dal nuovo e proficuo insegnamento del Concilio Vaticano II - che si sustanziano, anche, in un confronto dialettico di opinioni e ideologie.

(5) Sul tema si è sviluppata un'ampia letteratura. Tra i molti v.: DE LUCA, In tema di reati elettorali commessi dai ministri di culto, in Riv. it. dir. pen., 1953, 463; JEMOLO, L'articolo 79 nello 'jus conditum' e nel 'condendum', in Dir. eccl., 1953, II, 46; ROSINI, Il magistero sacerdotale e il suo limite nella legge elettorale, ivi, 55; CASCIARO, Rilievi in materia di abuso delle attribuzioni di ministro di culto e del reato elettorale, in Giur. cost., 1959, 1288; BIANCONI, Libero esercizio del potere spirituale e reati elettorali dei ministri del culto cattolico, in Dir. eccl., 1964, II, 228; PANDICE, Considerazioni sul magistero sacerdotale ed i suoi limiti nella legge elettorale, ivi, 1977, II, 506; MASCIONE, Diritti di libertà dei cittadini «ministri di culto» e tutela dell'autodeterminazione dell'individuo in materia elettorale, ivi, 1979, II, 343; ZANNOTTI, Reati elettorali dei ministri di culto e principi della Costituzione, ivi, 351; BRUNO R., Ministri di culto e reati elettorali, in Arch. giur., 1983, 307; SCALINI, I ministri di culto e le leggi elettorali, ivi, 129.

(6) Tra le più significative sentenze in materia ricordiamo: Pret. Trecastagni 7 dicembre 1960, in Foro it., 1961, II, 178; cassazione 30 giugno 1967, ivi, 1968, II, 49; Pret. Frosolone 11 giugno 1974, in Dir. eccl., 1977, II, 506; Pret. La Spezia 7 marzo 1978, ivi, 1978, II, 305; tribunale La Spezia 26 gennaio 1979, in Foro it., 1980, II, 336.

(7) Cfr. BRUNO, op. cit., 332 ss.

(8) BRUNO, op. cit., 341.

(9) BRUNO, op. cit., 371.

(10) BRUNO, op. cit., 373.

(5) Sul tema si è sviluppata un'ampia letteratura. Tra i molti v.: DE LUCA, In tema di reati elettorali commessi dai ministri di culto, in Riv. it. dir. pen., 1953, 463; JEMOLO, L'articolo 79 nello 'jus conditum' e nel 'condendum', in Dir. eccl., 1953, II, 46; ROSINI, Il magistero sacerdotale e il suo limite nella legge elettorale, ivi, 55; CASCIARO, Rilievi in materia di abuso delle attribuzioni di ministro di culto e del reato elettorale, in Giur. cost., 1959, 1288; BIANCONI, Libero esercizio del potere spirituale e reati elettorali dei ministri del culto cattolico, in Dir. eccl., 1964, II, 228; PANDICE, Considerazioni sul magistero sacerdotale ed i suoi limiti nella legge elettorale, ivi, 1977, II, 506; MASCIONE, Diritti di libertà dei cittadini «ministri di culto» e tutela dell'autodeterminazione dell'individuo in materia elettorale, ivi, 1979, II, 343; ZANNOTTI, Reati elettorali dei ministri di culto e principi della Costituzione, ivi, 351; BRUNO R., Ministri di culto e reati elettorali, in Arch. giur., 1983, 307; SCALINI, I ministri di culto e le leggi elettorali, ivi, 129.

(6) Tra le più significative sentenze in materia ricordiamo: Pret. Trecastagni 7 dicembre 1960, in Foro it., 1961, II, 178; cassazione 30 giugno 1967, ivi, 1968, II, 49; Pret. Frosolone 11 giugno 1974, in Dir. eccl., 1977, II, 506; Pret. La Spezia 7 marzo 1978, ivi, 1978, II, 305; tribunale La Spezia 26 gennaio 1979, in Foro it., 1980, II, 336.

(7) Cfr. BRUNO, op. cit., 332 ss.

(8) BRUNO, op. cit., 341.

(9) BRUNO, op. cit., 371.

(10) BRUNO, op. cit., 373.

FONTI.

articolo 61 numero 9 codice penale; articolo 327 codice penale Per quel che concerne i reati elettorali v. in particolare l'articolo 98 t.u. delle leggi per l'elezione della Camera dei deputati, approvato con d.P.R. 30 marzo 1957, numero 361.

LETTERATURA.

ALOISI Gli accordi lateranensi e i loro riflessi in materia penale, in RISG, 1934, 123;

DE LUCA In tema di reati elettorali commessi dai ministri di culto, in Riv. it. dir. pen., 1953, 463;

JEMOLO L'articolo 79 nello 'jus conditum' e nel 'condendum', in Dir. eccl., 1953, II, 46;

ROSINI Il magistero sacerdotale e il suo limite nella legge elettorale, ivi, 55;

CASCIARO Rilievi in materia di abuso delle attribuzioni di ministro di culto e del reato elettorale, in Giur. cost., 1959, 1288;

BIANCONI Libero esercizio del potere spirituale e reati elettorali dei ministri del culto cattolico, in Dir. eccl., 1964, II, 228;

FERRABOSCHI Ecclesiastici (diritto ecclesiastico), in questa Enciclopedia, XIV, 250 ss.;

PETRONCELLI HÜBLER Ancora sulla posizione dei ministri dei culti acattolici nell'ordinamento italiano, in Arch. giur., 1972, 93;

VANNICELLI Sulla condizione giuridica dei ministri di culto, in Studi in onore di P.A. d'Avack, III, Milano, 1976, 977;

PANDICE Considerazioni sul magistero sacerdotale ed i suoi limiti nella legge elettorale, in Dir. eccl., 1977, II, 506;

MASCIONE Diritti di libertà dei cittadini «ministri di culto» e tutela dell'autodeterminazione dell'individuo in materia elettorale, ivi, 1979, II, 343;

ZANNOTTI Reati elettorali dei ministri di culto e princìpi della Costituzione, ivi, 351;

BRUNO R. Ministri di culto e reati elettorali, in Arch. giur., 1983, 307;

SCALINI I ministri di culto e le leggi elettorali, ivi, 129.